All'Opening della 55 Biennale di Venezia
Con tante opere, incontri,
emozioni, fatiche, file, camminate, come al solito, e pioggia e freddo (meno
solito), si è inaugurata mercoledì 29, giovedì 30 e venerdì 31 maggio la 55
Biennale di Venezia, che apre al pubblico dal primo giugno al 24 novembre.
L’opening veneziano per gli
addetti ai lavori dura tre giorni perché la Biennale è un fitto e spazialmente enorme insieme
di mostre e di padiglioni nazionali, collocata principalmente nella vasta aerea
dei Giardini e nei suggestivi ex cantieri dell’Arsenale, ma anche in diversi
sedi e palazzi sparsi in tutta la città. Come al solito tante opere, tante
suggestioni, tanti opening, tanti party, tanti artisti, curatori, galleristi,
visi noti e meno noti, visi amici, visi conosciuti e sconosciuti, visi di ogni
nazionalità e linguaggio. A volte una vera Babele, dove ci si perde, e dove
bisogna anche lasciarsi andare al caso, perché nemmeno volendolo si può vedere
tutto ciò che c’è da vedere, e incontrare tutti coloro che si desidera
incontrare.
Marino Auriti The Encyclopedic
Palace of the World, ca. 1950s - photo
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Sono venuta a Venezia con due
precisi progetti, entrambi impegnativi e divertenti allo stesso tempo: fare una
performance a sorpresa basata sul silenzio (come buco nero di un momento che
stiamo attraversando, dove mancano le parole, e ci mancano le parole per farci
sentire, o il paese non sembra aver bisogno della cultura e degli artisti anche
se sempre più li cerca) e avere una visione delle opere esposte per riflettere
su ciò che sta accadendo nel panorama artistico internazionale e potervele raccontare.
Progetti impegnativi perché antitetici,
seppur sovrapposti: quando mi preparo per la performance e vago per i
Padiglioni della Biennale, lo faccio senza vedere le opere, ma osservando tutto in funzione della scelta dello spazio in
cui farò l’intervento e mi concentro solo su quello. Quando invece ho la testa
libera dalla performance, mi trasformo in visitatore e giornalista, per
cogliere le opere, goderle o giudicarle, ammirarle o criticarle, parlarne con gli
altri e lasciarle lavorare dentro di sé (che poi è questo ‘lasciar le opere
lavorare dentro di sé’ che, a mio avviso, è la ricchezza più nutriente e
stimolante dell’arte).
Già da parecchi anni la Biennale d’Arte di
Venezia si struttura secondo due grandi pilastri: le mostre dei Padiglioni nazionali, ciascuno con il suo curatore e
il suo progetto, ospitata nei Padiglioni che le singole Nazioni hanno
acquistato da tempo ai Giardini o all’Arsenale, o affittato in città, o scelto
appositamente (per esempio il Portogallo quest’anno si è presentato a Venezia
con una nave proveniente da Lisbona e ormeggiata davanti ai Giardini,
interamente allestita dall’artista Joana Vasconcelos), affiancata dalla Mostra Internazionale del curatore della Biennale, nominato per ogni
edizione, e collocata all’Arsenale e in parte ai Giardini.
Quest’anno il curatore della
mostra Internazionale è Massimiliano
Gioni, giovane ma già molto famoso curatore italiano, presente
nello staff direttivo del New Museum di New York, e il titolo dell’esposizione
è Il Palazzo Enciclopedico. Massimiliano Gioni ha introdotto la scelta
del tema evocando l’artista auto-didatta italo-americano Marino Auriti che “il
16 novembre 1955 depositava presso l’ufficio brevetti statunitense i progetti
per il suo Palazzo Enciclopedico, un museo immaginario che avrebbe dovuto
ospitare tutto il sapere dell’umanità, collezionando le più grandi scoperte del
genere umano, dalla ruota al satellite. L’impresa di Auriti rimase naturalmente
incompiuta, ma il sogno di una conoscenza universale e totalizzante attraversa
la storia dell’arte e dell’umanità e accumuna personaggi eccentrici come Auriti
a molti artisti, scrittori, scienziati e profeti visionari che hanno cercato –
spesso invano – di costruire un’immagine del mondo capace di sintetizzarne
l’infinita varietà e ricchezza.”
Questa scelta curatoriale e
questo presupposto concettuale hanno dato luogo a una mostra molto complessa,
fuori dall’ordinario, estremamente ricca di ‘inventari’ di opere di artisti e
non artisti anche poco o totalmente sconosciuti, molto interessante e ben
allestita (giustamente però Marco Senaldi, sulle pagine di Artribune, evidenzia
la pecca di aver nascosto le meravigliose strutture proto industriali
dell’Arsenale dietro a un allestimento museale asettico e impersonale), che
però si è presentata più come una grande opera curatoriale che come un insieme
di opere artistiche belle e innovatrici. Una caratteristica, questa, che sta
attraversando il mondo dell’arte ma che per molti addetti ai lavori risulta
discutibile, poiché l’arte diventa solo un mero strumento per veicolare le
visioni del mondo del curatore, che diviene l’artista finale.
Oliver Croy and Oliver Elser , The 387 Houses of Peter Fritz (1916–1992), photo
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Interessante
questo lavoro di catalogazione del mondo che perviene da questa mostra che si
srotola per centinaia e centinaia di metri e di stanze fra gli Arsenali e i
Giardini, curioso scoprire il lavoro quasi maniacale di persone più o meno conosciute
che hanno lasciato tracce di sé attraverso il loro fare, commovente la
riscoperta al mondo di queste opere e percorsi già trascorsi e ora rimessi in
vita, sfizioso il concetto di enciclopedia e di inventario che ricorre nel
succedersi delle opere mostrate, ma è mancata la presenza di grandi emozioni
derivate dalle opere, e la forza artistica e innovatrice delle proposte. Altre due chicche in mostra erano l’originale del libro dei sogni di Carl G Jung, e le opere-seminari di Rudolf Steiner, opere belle e rarie ma anche qui non certo opere d’arte
autonome e nemmeno recenti (e vi parla qualcuno che adora il mondo di Jung e la
sua vasta opera).
Ci sono state
naturalmente eccezioni, come il bel video sperimentale della giovane francese Camille Henrot che ha vinto il Leone
d’argento come promettente giovane artista, o l’Italiana Rossella Biscotti con un progetto realizzato con le donne del
carcere della Giudecca (ma poi presentato solo in forma di suono e di scultura
creata col compost del carcere).
Ci si è anche domandato come mai
la nostra società si stia avvolgendo su sé stessa e si proponga al mondo con la
ripresa del passato e con il ripiegarsi su ciò che è andato. Curiosa infatti è
la coincidenza con la grande mostra inaugurata, sempre in quei giorni a Venezia,
alla Fondazione Prada a Ca’ Corner
della Regina, che ha ricostruito in TOTO
(e dire in toto vuol dire che ha ricreato i muri e la disposizione delle opere
proprio come era allora) la storica mostra di Harald Szeehmann alla Kunsthalle di Berna nel 1969. Lo scopo della
mostra, visitabile sino al 3 novembre, è quello di riproporre, con la stessa
intensità ed energia, le ricerche che andavano dalla Process Art alla Conceptual
Art, dall’Arte Povera alla Land Art, sviluppatesi a livello internazionale alla
metà dagli anni ’60, e di riallestire filologicamente il concept curatoriale. Le
opere, seppur create quasi 50 anni fa, sono ancora assolutamente contemporanee
e molto godibili, sia dal lato estetico-formale che concettuale. E divertente
anche la telefonata dell’artista Walter De
Maria (tramite il telefono usato nel 1969 per quest’opera intitolata Art by
Telephone) alla quale ha risposto in diretta una Miuccia Prada circondata dai
fotografi.
Ci si domanda allora: siamo in
una crisi di identità così grande che la società si ripiega sul passato?
(Ci ricordiamo anche della scorsa
grande e bella edizione di Documenta (13) a Kassel curata dalla bravissima Carolyn
Christov-Bakargiev, dove si sono visti, oltre in verità a innumerevoli
lavori nuovi e site specific appositamente progettati per la grande kermesse,
la riproposta di artisti passati o dimenticati o mai conosciuti, che comunque
ha emozionato conoscere e/o rivedere).
Miuccia Prada che risponde alla
chiamata di Walter de Maria dal telefono-opera - photo © Liuba 2013
L’opera di Walter De Maria ‘Art by Telephone’ del 1967 - photo
Ritornando alla Biennale, grande
attualità e spesso spettacolari proposte si sono viste invece nelle singole
mostre dei Padiglioni Nazionali, che hanno presentato in alcuni casi opere
davvero potenti, assolutamente contemporanee e innovative, oltre che
emozionanti e stimolanti.
Ai Giardini per esempio l’artista
russo Vadim Zakharov ha
presentato Danae, un’interessante installazione
interattiva centrata sul tema del denaro, dell’uomo e della donna. Per questo
lavoro il pavimento del piano superiore del padiglione russo ai Giardini,
costruito 100 anni fa, è stato sventrato per realizzare un largo buco quadrato
che permette dall’alto di vedere ciò che accade al piano inferiore, dove le donne del pubblico - nella parte
inferiore del Padiglione non veniva permesso agli uomini di entrare - alle
quali viene fornito un ombrello trasparente, vengono investite da una pioggia
di monete d’oro proveniente da una piramide posta nel soffitto. Sui muri del
piano superiore ci sono le parole rivolte all’uomo, al quale viene ricordato
che è il momento di confessare, tra le altre, lussuria, avidità, narcisismo,
invidia, ingordigia e stupidità. Lo stesso uomo costretto, iconograficamente, a
flettersi (il buco realizzato per osservare la pioggia d’oro è circondato da un
inginocchiatoio in velluto rosso) davanti al dio denaro.
Molto interessante, poetico e innovativo anche il
Padiglione di Israele, dove l’artista Gilad
Ratman ha presentato The Workshop 2013 un’installazione
multicanale site-specific e performativa, ispirata a un viaggio sotterraneo intrapreso
da una piccola comunità di persone da Israele a Venezia. Il loro viaggio epico
comincia nelle caverne israeliane, attraverso pericolosi varchi sotterranei fisici,
ma anche simbolici, per poi irrompere
nel pavimento del padiglione israeliano, da un tunnel sotterraneo scavato per l’occasione.
Queste persone quindi si ‘installano’ nel Padiglione e diventano i partecipanti
del workshop, che consiste nel scolpire il loro autoritratto con l’argilla e
inserirvi un microfono con registrati i suoni delle proprie voci. Un progetto complessivo
che si attua quindi attraverso diversi media, dal video, al suono, all’installazione,
alla scultura, alla performance, alla Land Art, a un intervento fisico nella
struttura del padiglione, in un connubio certamente riuscito e significante.
Gilad Ratman, The Workshop 2013, particolare della videoinstallazione - photo © Liuba 2013
Ancora il ‘Padiglione in sé’ è
protagonista dell’operazione concettuale di Francia e Germania che per quest’edizione,
e in simbolo di pace, si cambiano il relativo Padiglione Nazionale, in ricordo
e in occasione del 50mo anniversario del trattato dell'Eliseo che mise fine a
mille anni di guerra tra Germania e Francia. I padiglioni nazionali quindi
diventano terreni simbolici di identità nazionale, scambio di identità, e materiale
installativo da plasmare all’esigenza del progetto.
A tale proposito riuscito e stimolante è anche il
Padiglione della Danimarca, sempre ai Giardini. L’artista Jesper Just, in collaborazione con un architetto
e un comunicatore, ha chiuso l’entrata principale del padiglione stesso,
facendo entrare i visitatori da un’entrata posteriore immersa in simulacri di
lavori in corso, aprendo una connessione tra lo spazio dell’opera, lo spazio
fisico del padiglione e lo spazio digitale del messaggio e sottolineando
la sinergia con l’installazione video multicanale presente all’interno, che
riflette sull’immigrazione, sul rifiuto,
sui detriti, sul paesaggio.
Notevole è anche il Padiglione degli Stati Uniti, con l’artista Sarah
Sze che in tre mesi costruisce in loco un’installazione poliedrica intensa e
apparentemente caotica costruita con miriadi di materiali assemblati, che
ricrea un caos del cosmo, che poi caos non è più.
Sarah Sze, Triple point, 2013 – particolare dell’installazione - photo © Liuba 2013
Bello, poetico, denso e intenso
il lavoro di Alfredo Jaar al
Padiglione Cileno all’Arsenale, che con un’installazione altamente suggestiva,
riflette sull’anacronismo delle Nazioni presenti con un proprio Padiglione
Nazionale ai Giardini, padiglioni costruiti a partire dall’inizio del secolo
scorso e non più adeguati a rappresentare la vasta e mutata geografia politica
attuale. Jaar presenta infatti una struttura quadrata di metallo di 5 metri x 5
riempita di acqua, del colore dei canali veneziani, dalla quale, approssimativamente
ogni tre minuti, emerge il plastico, ricostruito rigorosamente in scala 1:60,
dell’Area dei Giardini di Venezia con i suoi 28 Padiglioni Nazionali. Il
plastico architettonico dei Giardini rimane visibile per alcuni secondi, e poi
si ri-immerge lentamente nelle acque verdastre della laguna. Questa installazione
coinvolgente è un intervento evocativo e critico per esaminare in che modo la
cultura del nostro tempo, costituita da network globali sempre più complessi,
possa essere adeguatamente rappresentata su un palcoscenico internazionale.
Degno di nota, non forse per la
qualità delle opere rappresentate, ma come notizia del suo esserci come
Nazione, è il nuovo Padiglione della Santa Sede, all’Arsenale, che ha investito
parecchie migliaia di euro per presentare opere centrate sul tema della
creazione, ispirandosi ai primi 11 capitoli della Genesi. Tano Festa, Studio
Azzurro (che con un’installazione video interattiva ricorda, non
raggiungendone però l’altezza, le opere di Bill Viola), Josef Koundeka e
Lawrence Carroll. Che anche il Vaticano stia capendo, a modo proprio, che la
cultura non è sempre ‘pericolosa’ e che si potrebbe tornare alle grandi
committenze che hanno fatto fiorire il Rinascimento?
Il Padiglione Italia, invece, nella
sua recente collocazione alla Tesa delle Vergini all’Arsenale, e quest’anno
curato da Bartolomeo Pietromarchi,
ha presentato sette ambienti – sei stanze
e un giardino – che ospitano ciascuno due artisti in dialogo fra loro. Alcuni
binomi e opere erano più riusciti di altri, le proposte si indirizzavano verso
linguaggi che spaziavano dall’installazione, alla performance, alla fotografia,
e al suono e all senso dell’olfatto. Singolare e forte, a questo proposito, vorrei
evidenziare l’opera olfattiva Per l’eternità di Luca Vitone, che in stretta collaborazione col maestro profumiere
Mario Candida Gentile, riporta le essenze di rabarbaro svizzero, belga e
francese, come evocazioni olfattive del disastro ambientale dell’Eternit,
costringendoci, annusando l’essenza diffusa nell'ambiente, ad associare immagini
inquietanti di presenze tossiche nell’aria che respiriamo.
Ci sarebbero ancora molte opere
da analizzare o da mostrarvi, ma vi consiglio di andarci di persona e di
lasciarvi interrogare dalle opere e relazionarvi con ciò che vedete. Ci
sarebbero ancora molte parole da dire, ma vi lascio con silenzio, che è l’opera
performativa che ho presentato a sorpresa durante l’opening. Avvalendomi di una
partitura ispirata al famoso pezzo di John Cage 4’33” che ho eseguito più volte
di fila e accogliendo nella performance persone che desideravano interagire con
me, ho incarnato, attraverso il silenzio, la difficoltà di parlare e di farsi
sentire in un momento di grande crisi e di mancate speranze come quello che la
nostra società sta attraversando, e la possibilità di essere sé stessi
nonostante tutto, semplicemente connettendosi con ciò che si è.
Liuba, 4’33” Silence Loop, 2013 performance a sorpresa con interazioni spontanee - photo Riccardo Lisi
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guarda più foto della performance
Tutte le foto dell’articolo: ©
LIUBA 2013, courtesy Biennale di Venezia
Per la performance di Liuba: ©
LIUBA 2013, foto di Riccardo Lisi, courtesy of the artist