Ho lasciato passare del tempo, dalla mostra alla fiera di
flash art, perché avevo bisogno di metabolizzare, di riprendermi, di capire e
di curarmi. Non so se quello che ho intenzione di scrivervi vi sarà di
giovamento oppure si torcerà contro di me, oppure sembrerà inopportuno. Non lo
so bene, ma so che desidero in questo diario raccontarmi, e raccontandomi
essere onesta, ed essendo onesta aprire pagine del proprio essere che gli altri
possono condividere, facendo vedere qualche piega magari oscura, che contrasta
con ciò che si percepisce da fuori e che percepiscono gli altri. E poi, non so
se per presunzione o meno, vorrei che il condividere ciò che provo, così come
le difficoltà di una vita gestita cercando di dare il meglio di sé nell’arte e
al tempo stesso cercando di convivere con i normali problemi della
sopravvivenza, possa essere se non di aiuto, almeno di conforto a qualcun altro,
alle prese con le stesse difficoltà.
Perché di difficoltà si tratta. Ho fatto questa mostra
personale per il Flash Art Event di febbraio, preparandola con la gioia nel cuore
e con l’emozione che spesso capita per questi eventi, come quella di essere
eccitata, e al tempo stesso però sentirsi essere messa alla prova, essere alla ribalta
ed essere sotto i raggi x. Ho preparato
questa mostra con sentimenti contrastanti, che oscillavano fra l’entusiasmo e
la paura, fra la contentezza e gli ostacoli (v. pozzo e la gioia, le fasi della creazione), per alcuni mesi
prima dell’evento, lavorando a più non posso, e come spesso accade, donandomi a
tal punto da non aver pensato né a me stessa, né agli altri, né alle incombenze
pratiche, né ai banali impegni quotidiani. Ho cercato di mettere tutta me
stessa nella realizzazione di una serie di opere fotografiche nuove (tratte
dalle performance del progetto the finger and the moon) e di una nuova performance collettiva con la partecipazione dl pubblico.
Ho adorato lavorare in sinergia con il curatore Mark Bartlett per la
realizzazione dei nuovi lavori, e con la gallerista di Visualcontainer per le decisioni di
comunicazione e logistiche, mi sono spaventata per i costi di produzione delle
opere, che non avevo ma che decisi di affrontare per dare il meglio di me (e
quindi permettendomi, al contrario di altre volte, di produrre lavori grandi),
e insomma stanca morta ma soddisfatta e con tutto pronto a puntino arrivo al
giorno dell’opening (possiamo dire che come spesso succede le ultime cose sono
state finite solo alcuni momenti prima che il pubblico arrivasse) e comincio subito a
sentirmi a disagio. Mi rendo conto che non so bene cosa fare e come
comportarmi.
Avevo una voglia esorbitante di parlare dei lavori, di tutti
i progetti che ci sono dietro, di conoscere le persone, ma per una sorta di
pudore, di timidezza e di convenienza di ruoli, pensavo che fosse molto meglio che
lo facesse la gallerista, inoltre ero molto agitata per il fatto che
desideravo intensamente una vendita, sia per ripagarmi di una parte delle
spese sostenute per questo progetto che dura da anni, sia per una
gratificazione banale quanto necessaria: se qualcuno paga per quello che fai
vuol dire che ti accetta in pieno. E, siccome ahimè ho sempre venduto poco,
questa volta ne avrei avuto davvero proprio tanto bisogno. Certo che sapevo
bene che è il momento peggiore, che c’è la crisi e bla bla bla, ma come spesso
mi capita avevo proprio deciso di andare controcorrente, dicendomi: quando
tutti si lamentano e si piangono addosso, io invece di lagnare mi butto e mi
metto ad investire di più del solito. E questo decisi di fare, ma forse senza
rendermi conto dei rischi che mi prendevo (per non dire del fatto che a
prendermeli sono stata da sola, essendo stata spalleggiata sul lato concettuale
ma non sul lato pratico). Quindi insomma, con tutto sto bagaglio e con tanta
ansia, gioia, indecisione, stupore, goffaggine, mi sono vissuta il giorno dell’opening,
fino alla performance. Poi, come al solito mi accade, come per incanto e per
magia, durante la performance, compresa la parte preparatoria col patto di
partecipazione del pubblico, sono stata d’incanto. Perfettamente a mio agio,
perfettamente e profondamente me stessa, perfettamente padrona della
situazione, godendomi la performance e, per fortuna, facendo godere anche gli
altri. Certo, sono abituata: a volte
nella vita normale mi sento goffa imbarazzata e a disagio, e poi nella
performance ritrovo ciò che più profondamente sono, la vera me stessa, e tutto
sembra assoluto, senza difficoltà, perfetto e come deve essere. Per tutti i
giorni successivi della fiera è andata così: fatica, disagio, timidezza,
pudore, fintanto che arrivava il momento della performance e tutto si dissolveva,
facendomi stare di nuovo bene.
Non sono riuscita però a fregarmene di tutto e di tutti e arrivare
alla fiera solo per la performance, per cui arrivavo più o meno per l'apertura e ciondolavo a volte come un’ameba,
stralunata del successo del pubblico che i miei lavori riscontravano, della
fila allo stand per vedere le foto e i video (ce n’erano tre che si succedevano
su un monitor), contenta ma tesa, cercando di captare cosa sarebbe potuto
succedere di positivo, oltre a tutti quegli elogi e quella estrema visibilità.
E non successe praticamente niente. Non che non mi facessero piacere gli elogi
e il, come si può dire, ‘successo’, da sempre credo che un artista prenda sul
serio ciò che fa perché desidera incontrovertibilmente comunicare in profondità
con gli altri, però a volte accade che non ti basta. E ti trovi anche a
scoprirti arrabbiata che tutto ciò non ti basti più.
Finita la fiera sono scoppiata in una grande crisi,
ritrovandomi con tutta la vita da riprendere in mano, con tutti le cose
pratiche, gli impegni, le relazioni, i pagamenti che avevo trascurato, cercando
di riprenderne il filo e di mettermi a pari, e al tempo stesso ritrovandomi lo
studio occupato dai grossi lavori nuovi, esposti e prodotti per la fiera, che poiché
invenduti sono ritornati indietro impacchettati. Mi sono sentita un verme. Tutta
sta fatica, spese, spremiture fino all’osso, per pochi giorni di mostra e poi rimettere le
opere nella plastica a bolle e nasconderle al mondo nel mio studio, dove tra l’altro
mi ingombrano poiché ho lo studio nell’appartamento dove vivo e poiché colmo di
opere di varie altre fasi e mostre e tempi. Certo, alcune opere sono uscite da
quello studio, destinazione gallerie, acquirenti eccetera, ma troppo poche per
sentirmi leggera, e perché il peso delle opere di tanti anni non si faccia
sentire da tutte le scatole, le pareti e gli anfratti dove sono nascoste.
Non che mi penta di aver prodotto quelle opere, e ora non è
che siano buttate al macero, esistono e insieme a gallerista e curatore si
vedrà cosa farne, però è frustrante sentire di perdere pezzi di carne, sangue
tempo e vita per anni e anni e anni e sempre dopo una mostra ripiombare nella
fatidica domanda del senso del fare queste cose e del perché e chi te l’ha fatto
fare, e paradossalmente una parte profonda e perversa di noi stessi soffre di
più in diretta proporzione all’apprezzamento del proprio lavoro.
Perché ti senti davvero solo, solo con il tuo apprezzamento, che non ti serve per pagare le bollette di casa, per aiutarti ad andare avanti, per motivarti davvero a continuare, perché ti senti solo a scegliere stupidamente di investire energie tempo soldi fatiche momenti anni sangue pensieri emozioni convinzioni in qualcosa così effimero come un’opera d’arte che non sai mai se sarà vista, e se sarà vista non sai che senso ha che sia vista, e così pure per la performance, dove la gratificazione è immediata, e ripagano gli sforzi gli abbracci e i grazie delle persone, ma quanto spesso ti senti sola nel portare avanti questo fardello, nel mettere in gioco tutto, quando gli altri spesso non fanno altro che stare lì dal di fuori a dare i giudizi. No, a volte non è proprio facile, né piacevole la vita dell’artista, e ci vuole tempra, se mai si riesce a resistere. Checchè ne dicano quelli che incontri dal di fuori che ti dicono: ah fai l’artista, che figata!! Però non nego che qualche vantaggio c’è, almeno la libertà è qualcosa che nessuno ci toglierà mai, e liberamente in questi giorni ho deciso di staccare per ricaricarmi, per finalmente vivere senza occuparmi delle scelte artistiche da fare, fregandomene abbastanza di tutto e cercando di darmi del tempo per capire perché, nonostante una bella mostra, e un discreto successo, io abbia sofferto come un cane.
Perché ti senti davvero solo, solo con il tuo apprezzamento, che non ti serve per pagare le bollette di casa, per aiutarti ad andare avanti, per motivarti davvero a continuare, perché ti senti solo a scegliere stupidamente di investire energie tempo soldi fatiche momenti anni sangue pensieri emozioni convinzioni in qualcosa così effimero come un’opera d’arte che non sai mai se sarà vista, e se sarà vista non sai che senso ha che sia vista, e così pure per la performance, dove la gratificazione è immediata, e ripagano gli sforzi gli abbracci e i grazie delle persone, ma quanto spesso ti senti sola nel portare avanti questo fardello, nel mettere in gioco tutto, quando gli altri spesso non fanno altro che stare lì dal di fuori a dare i giudizi. No, a volte non è proprio facile, né piacevole la vita dell’artista, e ci vuole tempra, se mai si riesce a resistere. Checchè ne dicano quelli che incontri dal di fuori che ti dicono: ah fai l’artista, che figata!! Però non nego che qualche vantaggio c’è, almeno la libertà è qualcosa che nessuno ci toglierà mai, e liberamente in questi giorni ho deciso di staccare per ricaricarmi, per finalmente vivere senza occuparmi delle scelte artistiche da fare, fregandomene abbastanza di tutto e cercando di darmi del tempo per capire perché, nonostante una bella mostra, e un discreto successo, io abbia sofferto come un cane.
Non so se qualcuno si è riconosciuto in queste parole. Ma mi sono sforzata di tirarle fuori e di mettermi a nudo proprio per solidarietà con questo qualcuno. Raga, anche se magari in pochi, ma siamo nella stessa barca, forse, o no?? Se volete scrivere le vostre storie o i vostri commenti mi farà immensamente piacere!
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