Avevo deciso di fare un lavoro sul cibo.
Lo decido perché è
la summa di un’esperienza pluriennale del mio stare qui a New York, oltre a
un’esperienza pluriennale di interesse alla qualità del cibo, al mangiare bene
e alla cura naturale. In più qui in America più che altrove, il cibo – come
tutto – è oggetto di marketing sfrenato e tutto fa capo ai soldi. Ho vissuto e
pensato e sperimentato tantissimo su questo argomento e fatto riflessioni
composite per molti anni. In più questa volta, arrivando a New York a gennaio,
ho cominciato subito a fare una serie di fotografie centrate sul rapporto col
cibo. Per cui ora era proprio giunto il momento di parlare di questa cosa, e
parlarne voleva dire usare il mio linguaggio, e fare un’azione di performance
mista con foto e testi, dove ho messo tutto ciò che volevo dire, che sentivo,
pensavo e comunicavo. (Credo che noi artisti creiamo cose perché non siamo
capaci di esprimere con un linguaggio comune la sottigliezza delle cose che
vorremmo esprimere, e allora ti devi trovare un linguaggio appropriato per
comunicarlo).
Ovviamente avrei potuto fare al Grace Exhibition Space un
lavoro già preparato e già sperimentato, dove non avrei avuto la vertigine dei
tempi della creazione e dei tempi stretti della scadenza, ma sapevo che questo
nuovo “Food Project” era ciò di cui avevo esigenza ORA di fare e che lo dovevo
assolutamente fare in America, perché è stato incubato qui, e il linguaggio che
voglio usare ha senso qui. E sempre un po’ sacrificandomi per l’arte e per
esprimermi, mi sono messa in questa gara di preparare e inventare tutto per
tempo (e poiché a New York le cose accadono, ma tutto è veloce, ho avuto la
conferma della data solo un paio di settimane prima e non si sarebbe potuta
rimandare più in là, perché dopo dovevo prendere un aereo …).
A volte invidio un po’ le persone che lavorano nel teatro.
Loro producono degli spettacoli, impiegano le risorse per molto tempo, poi però
per magari un anno, o comunque moltissime repliche, vanno in giro a portare
quello stesso spettacolo già preparato. Almeno la fatica della preparazione ha
i suoi benefici e viene diciamo, sfruttata … Invece per noi non è così.
Nell’arte contemporanea, e nella performance, ogni evento è unico e
irripetibile. Ogni performance è un qui ed ora, hinc et nunc, irripetibile. A
volte ho impiegato anche anni a preparare dei progetti (v. per esempio la
complessa performance ‘The finger and the Moon #2’) e poi la fai una volta
sola. Poi impiego pure molti mesi per lavorare ai video. E basta. Fine. Il
lavoro rimane. E’ esposto. Viene visto, ma non si ripete. A volte ciò mi
frustra un po’. Eppure poi sono io per prima che lo scelgo: infatti quando mi
invitano a ripetere le performances, io di solito non lo faccio. Al limite, se
mi interessa, parto dal progetto ma lo modifico adeguandolo al territorio e
allo spazio. Credo proprio che una delle differenze più sostanziali tra la
performance art e il teatro sia proprio questa ‘unicità’ versus la
‘ripetibilità’, la presenza dell’esserci Vs la recitazione di qualcosa. Non
dico una è meglio una è peggio. Sono solo sostanzialmente diverse (tanto è che
nel passato mi offrirono più volte di ‘recitare’ a teatro, ma non ne sono
minimamente capace né mi interessa, perché riesco solo a fare ‘me stessa’ ed
esprimere ciò che sento in quel dato momento).
Cosa ho fatto per la performance a Brooklyn? Ho creato una videopresentazione con le – belle – foto fatte in questi mesi newyorkesi sul cibo, sul
marketing, sui dollari e la fame. Poi ho scritto dei commenti poetici alle foto
che ho messo in parallelo nel video e ho mandato il video, grande, a tutta
parete, durante la performance, con la funzione di contrappunto e dialogo con
l’azione live, in quanto ciò che facevo con le azioni era spesso in contrasto e
contrapposizione con ciò che la gente vedeva nel video. E, sia giocosa che
professionale, precisissima, ma ironica, mentre andavano le immagini e le
riflessioni, ho cucinato live per 30 persone. I puri, perfetti,
decantati e amati spaghetti col sugo fatti a regola d’arte (ovviamente, dato
che sono italiana), di quelli da leccarsi i baffi e che in America non sanno
cosa sia ma che adorano anche con i surrogati, e poi ho invitato il pubblico a
condividere il cibo, a fare festa, a fare banchetto. Perché il cibo è anche
incontro, e non solo sfruttamento, è socialità, e non solo biologia, è dono e
non solo marketing. Ho voluto appositamente portare lì una parte importante
della mia italianità, il rapporto col cibo e la socialità ad esso connessa.
Avevo il bisogno di dichiarare la mia identità e la mi appartenenza. In modo
evidente, ma non banale.
Ancora per una volta la mia performance era un dono, perché
mi sono spremuta come un limone per un mese, ho dato ogni mia fibra (compreso
lo stress della stanchezza) e come spesso accade non ho preso il becco di una
lira, ma il senso del dono del cibo e del darsi e dell’offrirsi era anche uno
dei sensi del lavoro.
(P.S. Per cucinare cotanta roba al Grace Exhibition Space ho
letteralmente smontato la cucina dell’appartamento in cui vivevo nell’East
Village, e devo essere grata a Fred, il mio padrone di casa, per avermi
lasciato usare e trasportare attrezzi vari e pure la sua cucina a piastre
elettriche ...
Inciso: – consiglio a tutti gli aspiranti performer e
artisti di essere maschi o mascolini principalmente, o fare molto sollevamento pesi, perché così si riescono
più facilmente a sgroppare tutti i materiali che occorrono perchè si fa
una fatica boia (io sono robusta in molte cose ma la forza nelle braccia no,
non ce l’ho proprio, e o stramazzo o devo chiedere aiuti vari a destra e a manca o a pagamento …)
– fine dell’inciso.
Alcune foto
'The Food Project. Performance 1" © liuba 2012 - Grace Exhibition Space, Brooklyn, NYC
(Le immagini dell'ultima parte non le ho perchè sono nelle riprese video che non ho ancora scaricato...!).
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