Di solito,da anni e anni, quando finisco una performance ho
una stanchezza tale e anche lo scarico della tensione e di tutta l’energia
accumulata e usata, che dormo e larveggio per alcuni giorni, senza a volte
riuscire ad alzarmi dal letto o a fare alcunché, e sono giorni in cui ti godi
il non far nulla, in cui senti il corpo azzerato che sa come rimettersi in
sesto, e da un lato ti senti beata e soddisfatta, dall’altra c’è sempre anche
un po’ di tristezza e di interrogativo – del tipo: ma che senso ha tutto questo,
tanto gran lavoro e poi cosa resta, ecc … - interrogativo che quando sei stanca
come una larva può anche causare leggeri pianti depressi ma poi passa col
rifiorire delle forze – bene, dicevo che di solito succede così, e il mio corpo
va in catalessi per tre dì ...
Ma questa volta il giorno dopo della performance
corrispondeva al giorno prima dell’aereo, e invece di poter restare a
cazzeggiare tutto il giorno, dormire, vedere amici e vagare per New York o
magari sdraiarsi a central park, ho dovuto sforzarmi quasi piangendo perché non
avevo forza alcuna, per liberare la mia camera, fare le valige (compreso fare
alcuni miracoli per fare stare tutte le cose), andare a fare un’ultima foto
della moschea per il progetto delle religione che mi avevano detto essere verso
30th street o giù di lì, e uscire con un mio caro amico appena rientrato a New York dopo mesi che non c’era …
Troppo per lo stato larvale del post performance. E non
scherzo. E’ il fisico a non esserci. Cambio faccia, divento pallida, non riesco
a muovere gli arti ma li trascino, tendo a stare solo orizzontale, il pensiero
è più lento di una lumaca, e di solito piango per un nonnulla, e il cuore batte
a tremila per lo sforzo. So che sapete cosa intendo. Energie residue -100.
Non era una bella sensazione non dare al tuo corpo e alla
tua mente ciò di cui ha bisogno, e tantomeno pensare di attraversare l’Oceano e
di andare altrove, e di chiudere per ora con questa parte di mondo. Io non sono
per niente brava con i distacchi. Sia con le persone che con i luoghi. E paradossalmente
forse per questo viaggio e mi muovo molto, per poter ritornare da chi ho lasciato, in un vortice
quasi perverso di pezzettini che ti si staccano dentro. E naturalmente infatti avevo voglia anche di
rientrare in Italia, con altre persone care che mi aspettavano, e finalmente un
cibo decente, e una camera un po’ più larga (qui a Manhattan vivevo stretta
come in un sandwich), e il progetto a Genova che si avvicinava e che avrebbe
catalizzato tutte le mie forze per il prossimo mese … ma no, lasciatemi riposare
per almeno una settimana, poi riparto. E invece l’aereo è lì, come un laccio al
collo, e poi non sarebbe possibile rimandare, perché ho le scadenze italiane … e
nemmeno è possibile partire senza fare i bagagli e dividere cosa mi porto e
cosa lascio (lascio sempre alcune cose a New York che non mi sto a portare
avanti e indietro, e che mi fanno sentire ‘casa’ quando torno … ). Non è possibile
prendere l’aereo senza le cose (e tra vestiti per tre stagioni, tecnologia,
materiali, libri, beauty case ben equipaggiato e le tante paia di scarpe
necessarie, il gioco non è di quelli essenzialmente leggeri …
Distrutta, amebica, post performance, piangente dalla
spossatezza, mi trascino a fare tutto, e poi alla sera mi sveglio pure e passo
la nottata fuori col mio amico Ish (e poi mi dico vabbè, è l’ultima nottata a New York e mi sforzavo anche se ero fuori del melone dalla stanchezza ... ).
Che dirvi, il giorno dopo metto la sveglia dopo poche ore,
finisco di impacchettare tutto (devo anche correre a comprare un’altra valigia,
e per far prima ci vado in bicicletta, compro un valigione enorme che persone
gentili mi aiutano a fissare sulla bici e pedalo sino a casa con sta cassa di
valigia in bilico sul manubrio … Insomma faccio tutto, prenoto taxi collettivo,
faccio le ultime telefonate agli amici, e mi trovo al JFK dove per un motivo o
per l’altro non mi riesco a rilassare nemmeno lì (tanto per cambiare qualche
disfunzione imprevista dell’Alitalia, tipo caricarsi il valigione perché era
l’unica compagnia aerea che non aveva il tapirulan per il check in.
Prendo il volo.
Adoro però l’aereo. Perché quando sei lì ciò che hai fatto hai fatto, un luogo
diventa passato, e quello in cui vai è ancora futuro e non sta nella tua testa,
quindi la testa è libera di volare, è leggera, è presente nel presente, è vigile,
è paziente. E naturalmente quando arrivo a Milano, con le 6 ore perse nel fuso
orario e una giornata in cui la notte non esiste e non hai dormito per due
giorni, ecco che mi trascino da Malpensa verso Milano verso il taxi verso via Bramante verso il mio letto (anzi il divano letto della cucina) e mi incollo lì
per due giorni e notti consecutivi, senza sapere nemmeno dove sono dove vivo e
chi sono.
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